Opinión

Disprezzo

Por José Carlos Agüero

Escritor e Historiador

DisprezzoFoto: Congreso de la República

Fare politica con il disprezzo porta a gravi conseguenze. La frivolezza, il cinismo e la sfacciataggine dei gruppi d’interesse, abituati ad agire con impunità, hanno fatto esplodere – ancora una volta – tutto il popolo peruviano (sono scoppiate proteste in 18 regioni su 24 nell’arco di meno di una settimana).

Offendi qualcuno e poi ti aspetti che si chiuda in casa a piangere dall’umiliazione? È questa la tua proposta politica? Prendere in giro chi disdegni e offrirgli il ruolo da spettatore, testimone di decisioni arroganti che prendi a suo nome? Che lo uccidi e, come se non bastasse, lo descrivi come se avessi ucciso un volgare molestatore?

Ciò che più richiama l’attenzione è il disprezzo. Perché è antico, si sa, però è sempre attuale. Questo momento inquadra il disprezzo come un nodo, un catalizzatore di emozioni e di forze. Un uomo di Hancavelica afferma: “…Da duecento anni è sempre la stessa storia.”

Che cos’è questa “storia”? La sua visione della vita politica, di cui egli stesso fa parte, sebbene per alcuni risulti sorprendente, rimarca sempre di più la sua inferiorità. Lo esclude e giustifica questa esclusione con il suo carattere quasi barbaro. Una donna di Ayacucho sostiene: “Castillo sarà pure un insegnante, sarà ignorante, non parlerà bene, ma è colui che votiamo.” È più chiaro? Sono davvero necessari altri indizi per rendere l’idea?

Non puoi umiliare tanto un numero così grande di persone. Prenderle in giro. Rispedirle con il loro fagotto al paesello nativo come fece un noto parlamentare conservatore. Via, al villaggio con i lama e gli alpaca, non alle alte sfere, dove non c’è posto per loro. Offrire, celebrare per averle collocate al loro posto, farsi selfie come i congressisti il giorno della VACANZA, e aspettarti che questa gente ti ringrazi per averla presuntamente salvata da se stessa, dalla sua incapacità.

Il linguaggio usato dai mezzi di comunicazione e dai “politici” (non si possono considerare veri politici, bisogna usare le virgolette) ha enfatizzato all’estremo fin da prima della vittoria elettorale di Castillo le limitazioni, le incapacità, l’ignoranza, la goffaggine, quella “idiozia” di cui parla il riconosciuto politologo Alberto Vergara. Ci sarebbe presa la libertà di insultare con tanta veemenza qualsiasi altro dei numerosi presidenti peruviani, TUTTI processati per corruzione e, ovviamente, anche loro inutili e mediocri?

Un’altra opinionista pubblica, riferendosi alla presidentessa Boluarte, afferma: “Non è capace, ma è già meglio di Castillo.” Per questi peruviani, che significa “essere capace”, parlando un politico eletto? Fujimori, Toledo, García, Humala o PPK erano capaci? Ovviamente no. Senza alcun giudizio, lo dimostrano i fatti. Non furono solo pessimi presidenti. Furono molto di più che cattivi amministratori. Alimentarono il collasso istituzionale e sociale del paese. Distrussero quel poco che era rimasto del tessuto sociale, criminalizzarono le istituzioni regionali e municipali, permisero che le mafie si appropriassero dei poteri maggiori. Qual è, quindi, questo standard di capacità a cui apparentemente tutti alludono?

Allora no, non si tratta di essere capaci. Stanno fraintendendo delle parole. Queste persone erano terribilmente dannose. Però appartenevano a gruppi di potere che generavano identità per diverse ragioni rispetto ai gruppi economici e mediatici: etnici, culturali, reti di privilegi, reti economiche, circoli familiari, tutti parte del sistema mercantilista. Castillo è migliore? È più capace? Ovviamente no. È un altro incapace. Solo che non proviene da questo settore. E ciò ha generato, fin dall’inizio, la sensazione di rischio, di mancanza totale di controllo, di possibile perdita di egemonia assoluta nel prendere le decisioni amministrative sia del potere, sia della corruzione. Dopotutto, beni in disputa.

Tre Pedro

Un politico tradizionale. – Il premier Castillo è il più trasparente. Un pessimo amministratore. Un personaggio che non ha potuto o saputo o voluto rompere con il modo di organizzare la cultura amministrativa nel potere esecutivo. Agì come i suoi predecessori. Si è attorniato della propria cerchia, si è allontanato da tutto il suo programma, dalle sue idee, dalle aspirazioni a medio e lungo termine che avrebbero reso possibile una riforma sociale e politica. I suoi obiettivi erano inverosimilmente limitati, meschini, congiunturali. Lo dimostra la sua prima misura da presidente: ha approvato l’iscrizione del suo sindacato dei maestri, parallelo al suo rivale, il vecchio SUTEP (Sindicato Unitario de Trabajadores en la Educación del Perú). Dopo 200 mila morti per il Covid, nel bel mezzo di una polarizzazione estrema, con problemi macroeconomici, ha dedicato il suo primo sforzo alla sua lotta sindacale. Volgare.

Come tutti gli altri presidenti, ha approfittato della sua posizione privilegiata di fronte all’apparato pubblico per ottenere vantaggi per sé e per i suoi adepti, a partire dagli investimenti pubblici e dalla corruzione. Si è isolato dai suoi alleati e ha concentrato le sue decisioni sempre a breve termine, sempre di sopravvivenza, in un gruppo di personaggi senza scrupoli. Ciò ha prodotto un danno a quel punto difficile da dimensionare: praticamente hanno smesso di governare per un anno. Il Paese ha proseguito in “pilota automatico”. Giusto per fare un esempio, abbiamo avuto più di cinquanta ministri in poco più di un anno, il che ci dà un’idea dell’assurda instabilità e dell’impossibile gestione a tali condizioni.

In un contesto mondiale avverso, smettere di governare è stato grave. Sicuramente questo signore ha concentrato parte delle sue attenzioni nella difesa dai gruppi mafiosi e antidemocratici che hanno sequestrato il potere legislativo e parte di quello giuridico, ma c’è anche altro: gli è rimasto il tempo per gestirsi il sistema di ricavi illeciti. Preoccupato per le conseguenze delle proprie azioni criminali, minacciato dai suoi nemici, ha provocato un colpo di Stato. Ma il fatto di non essere stato in grado di realizzarlo non esclude che non sia stato un colpo di Stato. Con lui, la previsione della destra più irrazionale si è avverata: è diventato un “dittatore comunista”. Non è stato né dittatore, né comunista, ovviamente. È solo un politico tradizionale, ma di un altro ramo della politica peruviana, lontana da quella di Lima, corrotto e lontano dai valori democratici.

Chiedere il suo ritorno? Se non bastasse il mancato colpo di Stato che gli toglie la possibilità di ottenere qualsiasi altro ruolo nel futuro del Paese (spero), ancora oggi contribuisce con la sua irresponsabilità a incrementare l’insicurezza dei cittadini. I messaggi in cui continua a definirsi presidente sono di una terribile negligenza criminale, perché sa che si ripercuoteranno a livello emotivo su molti manifestanti. Pedro Castillo e le persone di cui si è circondato quest’anno e questi mesi hanno dimostrato quanto sia profonda la ferita della sinistra, che sta morendo per mancanza di principi, non per mancanza di voti.

Pedro il “tappo”. – Adesso si capisce che Castillo, con il ruolo da presidente, sebbene non abbia governato in modo rigoroso, compiva una funzione sociale. La naturalezza della sua ultima campagna elettorale, di violento confronto tra i crociati (terroristi e comunisti versus fascisti-fujimoristi corrotti), creava un quadro di violenza contenuta. Abbiamo già scritto molto su di lui, quindi, riassumendo, diremo solo che il livello di risentimento, di menzogna e di manipolazione non sarà facile né da processare, né da dimenticare. Ogni parola è registrata, latente. A coloro che hanno votato Castillo risulta più chiaro che in nessun’altra epoca della repubblica, ciò che pensavano l’élite, i grandi media e buona parte di Lima su di lui e i suoi voti: erano voti persi, vuoti, viziati all’origine perché offerti da persone inferiori, indio, ignoranti e addirittura terroristi.

Ma Castillo, per più di un anno, nonostante la campagna di sabotaggio delle mafie del Congresso e dei media, nonostante le inchieste sui suoi familiari, si è mantenuto nell’Esecutivo (non facendo nulla, degradando la gestione, sì, però mantenendo quel posto). La mancanza di perizia e la meschinità che gli sono proprie erano quasi fuori dubbio, anche per la maggior parte del suo elettorato. Ma il fatto che occupasse quel posto era l’espressione della volontà dalla popolazione, nonostante la gigantesca campagna di umiliazione e stigmatizzazione che avevano ricevuto durante le elezioni. Pedro Castillo, governando senza governare, rubando, mentendo e colpendo addirittura la sussistenza della popolazione, conteneva l’ira di un enorme settore danneggiato. Ci si potrebbe infischiare della rabbia se si pensasse di ricevere qualcosa in cambio. In questo caso: un presidente deposto in cambio di un altro. È stato Castillo, e non rimane alcun controllo per quelle emozioni. E la violenza si è espressa.

Castillo simbolo. – Il personaggio politico di Castillo è reale, è colui che già abbiamo descritto. Ma è facile ammettere che per le persone c’è un altro Castillo. Uno che vive parallelamente a quello che mangia e respira nella prigione della DINOES. Questo Castillo è un simbolo, o una proiezione. Nelle proteste l’abbiamo sentito: è nostro, è per chi votiamo, è colui che eleggiamo, è uno di noi, è cholo, meticcio, è povero, è un escluso, è un contadino, è un “nessuno”. La verità è che non è un contadino, né un indio, non è neanche un rondero in senso stretto, e a questo punto dubito che sia tanto povero. Tuttavia, è questa l’immagine che le persone difendono. O, meglio, un’immagine che si difende da sé, difende il suo voto, la volontà popolare. Difende, inoltre, un valore fondamentale della democrazia. Se c’è qualcuno che rappresenta una forza con ragioni democratiche alla base, in questo momento, sono coloro che stanno protestando nelle differenti regioni del Paese. La mia opinione è che non hanno ragione per quanto riguarda il programma delle loro proteste, né per quanto riguarda il modus operandi, ma stanno difendendo un motivo cruciale per credere in qualcosa (almeno in qualcosa): votiamo, eleggiamo, accettiamo i risultati e qualcuno che ci rappresenta governa.

Per questo il dolore con cui si è vissuto il suo crollo. Perché è il crollo di una fede. La fede, nonostante tutti gli insulti, della lotta contro i grandi gruppi di potere, del terruqueo e della beffa, quando arriva l’ora di votare, siamo tutti uguali. Si può vincere. “Uno di noi” può vincere. Perché, altrimenti, i bambini dovrebbero scappare da scuola per protestare e morire se qualcosa di personale non li legasse con forza a questo simbolo, a questa formula? La fede nella democrazia, come baluardo per gli esclusi, è stata distrutta dalla caduta di Castillo.

È ovvio che Castillo si è suicidato politicamente, ma sarebbe una sfacciata menzogna affermare di non riconoscere che aveva raggiunto una posizione impossibile che, prima o poi, sarebbe finita con la sua deposizione o sospensione. E per farlo non hanno dato spazio alle giuste ragioni (la lotta contro la corruzione), ma a quelle sbagliate, quelle che erano nate addirittura prima che diventasse presidente e quelle che mai si sarebbero fermate. Quindi, per quanto sia un colpo di Stato, diciamo che è stato un golpe “aiutato”, un colpo di Stato supportato dal sabotaggio del Congresso. Altra profezia che si avvera: chi ha perso le elezioni “ha salvato il Perù dal comunismo”, ma lo hanno consegnato alle grinfie mafiose.

Nei commenti di una notizia che riportava le morti durante le proteste di questa settimana (già si contano almeno sette persone, tra cui due bambini), si leggeva: “Che i militari portino a termine il lavoro di Fujimori” (cioè che uccidano i terroristi, riferendosi ai cittadini manifestanti), o “Che facciano due chiamatine importanti”. Questi commenti sono stati scritti da account identificabili e reali. In centro a Lima un manifestante che non sembrava così terruco, né usava un linguaggio classista, affermava di chiedere il ritorno di Castillo perché era colui che avevano eletto. E che il colpo di Stato, in realtà, arrivava dal Congresso.

Irresponsabili

Giocare con le parole ha dei limiti. E questi ultimi di solito sono i corpi. Soprattutto quelli altrui. Da fin troppi anni l’incantesimo viene tenuto vivo, come l’illusione di avere un sistema di partiti, rappresentanti, padri della patria, istituzioni democratiche, mezzi d’informazione. Questi eufemismi vogliono celare il fatto che quelli che ci sono sono gruppi di interesse e lobby, reti di privilegi, monopoli abusivi, mafie e organizzazioni criminali, tutti che occupano ruoli che prima si dedicavano alle organizzazioni politiche. Ce ne sono di diversi tipi, alcuni più tradizionali, altri più moderni, alcuni di portata limeña-nazionale, altri più territoriali. Questi personaggi hanno rapito le istituzioni. Soprattutto il Congresso, ma anche il sistema di giustizia e i governi territoriali. Non sono solo gruppi aperti d’interesse privato o pubblico, completamente slegati dall’idea di interesse collettivo o pubblico, ma sono anche ferocemente antidemocratici. Esercitano il potere in modo abusivo, discrezionale, senza attenersi ad alcuna regola, né a quelle amministrative dei loro regolamenti, né a quelle costituzionali, senza avere alcun timore, perché godono di impunità. Ma da anni, in televisione e in radio, siamo obbligati a sentirli chiamare “politici”. E questo linguaggio li legittima a tal punto da farli sembrare tali.

Pedro Castillo, fallendo il colpo di Stato, ha fallito in due sensi. Il primo, più semplice, perché non è stato capace di imporlo, di realizzarlo. Nessuno gli dava retta, era privo di potere e “capacità di ricattare” altre forze. Poi, ha anche fallito in un modo più interessante. In realtà, diciamocelo, non sapeva come fare un golpe, né dove, né con chi o perché. I personaggi in disputa erano rivali per esercitare l’antidemocrazia. Entrambi sono elementi nocivi, distruttori dei vincoli di fiducia, delle relazioni tra persone e istituzioni, delle persone con idee e argomentazioni. Non si può fare un “colpo di Stato” così, in uno scenario che è già collassato. Perlomeno, non un colpo di Stato all’antica. È come cercare di colpire l’acqua. O l’aria.

Pedro Castillo, nonostante il desiderio delle persone, nonostante l’identificazione simbolica o culturale o sociale che lo sta mobilitando, non deve tornare. Anche in uno scenario dove chi vince e che celebra è il cattivo, non è sufficiente il pilota automatico. La presidentessa ad interim non si può aspettare che la gente applaudisca e che la faccia sentire voluta. Siamo testimoni del modo in cui la sua presidenza viene vista dalle grandi fasce di popolazione, è come un tradimento. E tutto ciò è grave. Perché non c’è peggior peccato del tradimento, non c’è ritorno e non c’è possibilità di aspettarsi alcuna virtù, di riporre la minima fiducia in un qualche traditore. Chi protesta l’ha detto chiaramente. Vogliono che rinunci perché la vedono, a ragione, come una presidentessa del Congresso. Cioè una specie di segretaria dei cattivi. La repressione brutale, le dichiarazioni dei suoi ministri e la sua attitudine banale consolidano questa visione.

Che fare

Ci sono motivi per manifestare? Certo che ci sono. Il Congresso è antidemocratico e potenzialmente golpista. Questo è chiaro. Castillo li ha preceduti perché non è molto diverso. Ma non ci si può aspettare che improvvisamente mostrino uno zelo riformista. Faranno tutto il possibile per mantenere la loro presenza e i loro interessi. Se ci saranno morti, potranno giustificarsi nell'enorme archivio magico delle invenzioni di cospirazioni, comunisti e terroristi. Chiederanno il pugno di ferro. Invocheranno il principio di autorità e imporranno di ristabilire l'ordine a tutti i costi.

Dina Boluarte ha agito con incredibile irresponsabilità. Ha lasciato passare del tempo prezioso prima di proporre ciò che era ovvio: elezioni anticipate e generali. Nel frattempo, a poco a poco, il Paese si è indignato. E le morti si spiegano con questo ritardo nell'offrire un orizzonte ragionevole, un tempo che consenta alla popolazione di organizzare il proprio futuro e le proprie aspettative in modo quantomeno precario. Ha scelto il premier sbagliato, che ha subito dimostrato di essere uno di quelli che chiamano i cittadini “sovversivi” e le proteste “folle”. Deve connettersi alla realtà. Smettere di reprimere. E “smettere di reprimere” significa chiaramente controllare una forza di polizia, togliendo prerogative e responsabilità – che devono essere politiche – a forze di sicurezza che hanno toccato il fondo.

Per último, ma non meno importante, la violenza dovrebbe smettere di essere solo un'altra risorsa contesa. Generare condizioni che mettono a rischio le persone è perverso. I corpi, non le parole, dovrebbero essere il limite. Anche i lavoratori delle istituzioni attaccate dai manifestanti sono cittadini, i poliziotti non devono essere bersaglio di aggressioni potenzialmente gravi, lo abbiamo visto, dai sequestri, alle molestie, ai pestaggi con mattoni e sampietrini. Pescare in acque agitate in mezzo a tanta rabbia, dolore e lutto è più che irresponsabile, non dimostra alcun segno di empatia. Se i leader sindacali, o i leader della comunità, o i comunicatori locali, o i politici di sinistra devono usare un linguaggio in questo frangente, dove le persone possono soffrire seriamente, dovrebbero stare attenti alla scelta dello stesso, e dovrebbero (dovrebbero...) moderare, pensare, riflettere sulle loro aspettative. Attenersi ciecamente ai programmi massimi (reintegrare l'ex presidente, difenderne la decisione incostituzionale di fare un colpo di Stato, non dare tregua all'idea di un'assemblea costituente) non aiuta a trovare risposte, ma anzi, esaspera gli animi, chiude le alternative (tutto o niente) e alza la soglia dello scontro. E, come si suol dire, è facile essere generosi con il portafoglio di qualcun altro. In questo caso, quanto è bello, quanto è eroico essere un ribelle con il corpo di uno sconosciuto.

Se dovremo manifestare, non sarà, lo confesso, come le altre volte. Non voglio difendere Castillo. Penso che debba essere processato. Non voglio che venga reintegrato, né voglio necessariamente che il governo di transizione cada. Voglio che reagisca rapidamente. Vorrei che leggesse la complessità della situazione. Che correggesse il suo pessimo inizio. Dovrebbe cambiare il suo primo ministro, perché non si può avere qualcuno che inizia il suo mandato giustificando le violazioni dei diritti umani. E che attui per quello che è, un passo breve e sobrio, se possibile efficace, verso un altro momento che speriamo sia migliore di quello attuale e per il quale deve liberarsi dalla dipendenza da questo Congresso. È difficile, ma è essenziale.

È difficile manifestare in questo modo. Perché gli slogan non sembrano abbastanza ragionevoli. Almeno, per me. Ma perlomeno facciamo lo sforzo di mostrare sostegno per le morti causate da tanto disprezzo e irresponsabilità. E speriamo che tutti coloro che hanno una reale influenza facciano del loro meglio per attenuare la violenza e creare un contesto con possibilità di dialogo. Più morti non generano più epopee. Aiutare a ricostruire, come sappiamo, è molto più difficile che aiutare a distruggere. Il tempo non sta per scadere, né questa settimana, né questi mesi. E il compito nel Paese è grande e difficile. Per anni, abbiamo avuto molta pazienza, abbiamo ricostruito le nostre istituzioni e i nostri legami e mantenuto il rispetto. Guardiamo un po' più avanti.

Una traducción al italiano de Cecilia Corato